Accogliere la malattia con una rete di cura

Da risposta operativa a tavolo di lavoro che coinvolge Pubblico, Privato e Terzo settore: il progetto ‘Abi(care). Casa e salute mentale’ del Patronato San Vincenzo genera una riflessione e nuove progettualità – Il Presidente Ranica: “Uno sguardo comunitario sul tema della salute mentale è possibile e doveroso”

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“Questo progetto nasce da un’esigenza riscontrata nella quotidianità: sia il Patronato San Vincenzo che la Fondazione ‘Don Fausto Resmini’ (a Sorisole, che fa capo al Patronato) ospitano persone in condizione di grave marginalità e povertà, con una forte componente di migranti. Abbiamo rilevato un’insorgenza sempre più marcata del disagio mentale. È vero che oggi c’è una maggiore sensibilità al fenomeno, che prima non veniva letto, ma registriamo anche un incremento delle difficoltà relative alla salute mentale”. Davide Pansera, progettista della cooperativa sociale Patronato San Vincenzo, racconta il progetto ‘Abi(care). Casa e salute mentale’, avviato a settembre dell’anno scorso, anche con il supporto della Fondazione della Comunità Bergamasca.

“L’inserimento di uno psichiatra, sia a Bergamo che a Sorisole, ha rappresentato la svolta per creare le condizioni per garantire la migliore accoglienza in queste situazioni. Per noi è stato fondamentale, perché ci permette di avere una diagnosi e, dunque, una maggiore qualità nella lettura del bisogno. Inoltre, con una diagnosi già fatta, l’accompagnamento presso i servizi dedicati (i CPS, Centri Psico-Sociali) risulta più agevole”, continua Pansera. I fruitori di ‘Abi(care)’ sono persone con fattori di rischio fortemente correlati allo sviluppo di disturbi mentali e sono quelle che hanno più difficoltà ad entrare in relazione con i Servizi specializzati (migranti, persone con difficoltà economiche ed abitative). “Il 10 per cento delle persone accolte in Patronato rientra in questo profilo. A questi vanno aggiunti coloro che non sono seguiti dai Servizi competenti”.

Lo stesso psichiatra lavora sia a Bergamo che a Sorisole, dove sono stati entrati a fare parte dello staff anche un infermiere e un OSS (operatore socio-sanitario, ndr): “A Sorisole c’è un Centro di prima accoglienza, in cui viene presa in carico anche la cura della salute fisica delle persone”.

La forza di ‘Abi(care)’ è ulteriore, come sottolinea Pansera: “È un progetto generativo in modi diversi: sia dal punto di vista operativo, che per la riflessione che ha aperto sul tema della salute mentale”. A seguito di questa ‘fase 1’, infatti si è costituito un tavolo di lavoro che ha visto la partecipazione, oltre agli enti già coinvolti e allo psichiatra, anche la Caritas Bergamasca e l’Area Grave Marginalità del Comune di Bergamo. “Questo incontro ha gettato le basi per una co-progettazione con la Fondazione della Comunità Bergamasca”. Ora si punta a integrare il progetto con una formazione specifica di tutto il personale d’équipe, in modo che possa sviluppare la capacità di riconoscimento dei sintomi e di gestione delle situazioni, talvolta anche conflittuali, che si possono venire a creare nelle fasi di accoglienza e accompagnamento.

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In prospettiva, c’è un altro traguardo: “Che cosa succede quando la persona esce dal raggio d’azione dei Servizi, cioè dopo che viene presa in carico e decorrono i quattro mesi di ospedalizzazione (non è possibile andare oltre)? La persona torna in strada, e lì si perde. Tutto il lavoro fatto in precedenza viene vanificato. Questa è una lettura condivisa da tutti i soggetti del tavolo di lavoro, come da ATS e dalle ASST del territorio, che esprimono difficoltà, a seguita delle dimissioni, a tenere agganciate le persone”. Basta un dato eloquente: l’80% dei pazienti non si presenta all’appuntamento fissato a una settimana dalle dimissioni.

La casa, da immaginare magari come un housing diffuso sul territorio, diventa allora una questione determinante per recuperare, monitorare e seguire le persone.

Osvaldo Ranica, Presidente della Fondazione della Comunità Bergamasca: “È possibile avere uno sguardo comunitario sul tema della salute mentale? Il progetto ‘Abi(care)’ ci dice che è doveroso farlo e che è possibile rispondere alla complessità, costruendo alleanze tra soggetti pubblici, privati e del Terzo settore. In Fondazione crediamo sia cruciale intervenire sulle condizioni di fragilità o disuguaglianza per evitare la cronicizzazione di situazioni che potrebbero portare all’esclusione sociale. Questo progetto va in questa direzione, perché cerca di rompere quegli automatismi così rischiosi per chi è solo e vulnerabile”.

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